Non sarà immediata la riapertura del ponte dell’industria né è scontato che non vi siano stati danni alle strutture in acciaio, che sono molto sensibili al calore e che richiedono adesso un attento monitoraggio.
È vero, il ponte era già stato modificato e le travature reticolari iniziali sostituite da quelle ad arco, ma gli impalcati in ferro e le colonne in ghisa sono ancora lì a testimoniare una voglia di modernità che si era affacciata, timida, al tramonto dello Stato Pontificio.
Una comparsa tanto rumorosa, come i locomotori a vapore, quanto discreta se, come vediamo dalle foto, all’inaugurazione non si trattò di folle acclamanti, ma di uno sparuto gruppo di autorità e pochi passanti a far da drappello a papa Pio IX.
Il ponte originale inaugurato nel 1863 era un ponte apribile, per il passaggio verso i porti di Ripa Grade e Ripetta, con due campate fisse, più ampie, e una centrale con impalcato sollevabile, retta dalle due coppie di possenti colonne in ghisa nel centro del fiume. Le colonne con il curioso coronamento turrito ad archetti con sesto acuto sono ancora lì a raccontarci della struttura nata per collegare la linea Roma Civitavecchia alla stazione di Termini. Lo riconosciamo come un importante patrimonio industriale della città. È un prodotto genuino dell’industria, spedito dall’Inghilterra e montato dalla società belga che si occupò dell’opera e che è parte delle innovazioni che si manifestarono nella Roma papalina della seconda metà dell’800.
È legato alla prima infrastrutturazione della città e preconizza, da un lato, la costituzione in zona Testaccio e Ostiense delle principali aree industriali romane, e dall’altro, congiungendo la linea di Civitavecchia alla stazione di termini, contribuisce alla focalizzazione dello sviluppo della nuova città nella zona dell’Esquilino, dove effettivamente si espanse dal 1870, come voleva il suo principale fautore il cardinale De Merode.
Nel 2010 il ponte è stato sottoposto ad un accurato intervento di restauro, consapevole dell’elevato valore culturale di uno dei simboli del patrimonio industriale romano e questo potrebbe aiutarlo a superare meglio l’incidente accorso.
Nel complesso però l’incidente ci spinge ad occuparci con maggiore forza dell’archeologia industriale a Roma e nella Provincia. Sono tante le aree congelate dalla mancanza di progettualità e di capacità di cogliere il valore aggiunto della memoria e dell’identità nei processi di riappropriazione dei passati luoghi del lavoro.
In un elenco che potrebbe essere lunghissimo ricordiamo la ex Snia Viscosa al Prenestino, l’ex area Società Anglo Romana ad Ostiense, gli scali ferroviari dismessi e inutilizzati, i depositi tramviari dismessi di Piazza Ragusa e delle Vittorie, lo stabilimento di materiali elettronici e di precisione di via Guido Reni, il Centro Studi ed Esperienze della Aeronautica a Guidonia.
In giorni di elezioni si può veramente dire che a Roma si riparte anche dalle aree industriali!
Edoardo Currà, presidente AIPAI
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